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Tradizioni natalizie calabresi

Ogni paese della Calabria o l’intera Calabria segue delle vere e proprie tradizioni nel periodo natalizio: andiamo a vedere nel dettaglio le varie feste, o ricorrenze religiose, di questo periodo dell’anno.

Il periodo di Natale

Durante il periodo che precedeva il Natale, su tutto il territorio si friggevano paste di pane e si confezionavano i dolci tipici del periodo. Nelle famiglie calabresi, veniva e viene ancora oggi preparato un dolce molto ricco e nutriente, la tradizionale pitta nchiusa (centro Calabria) o pitta mpigliata (alta Calabria), la cui preparazione prevedeva tra gli ingredienti: farina, vino, olio d’oliva, zucchero, miele, spezie, uva passa e noci.

Altri dolci tipici natalizi erano: le crucette, dei fichi secchi incrociati riempiti di noci, mandorle, scorza d’arancio e zucchero ed i tardilli (centro Calabria) o turdilli o cannariculi (alta Calabria) o turdiddi o pignolata (bassa Calabria) preparati con farina e miele con delle varianti più o meno consistenti nell’impasto, come l’uso del tuorlo d’uovo, l’uso del vino rosso, bianco o moscato, o il tipo di miele che poteva essere d’acacia, di fichi o fiori d’arancio. Mangiare i tardilli costituiva in passato per le famiglie calabresi un momento di grande allegria, specie per la gente povera che in questi dolci ricopriva il valore del gusto e dell’abbondanza. La tradizione di consumare durante le feste natalizie dolci canditi con il miele rinsalda l’antico legame ancora vivo con la civiltà greco-romana, ricordo di offerte votive, di riti propiziatori e sacrifici.

Nella settimana precedente il Natale, nella comunità albanese di San Demetrio Corone, nel cosentino, si procedeva alla preparazione di dolci fatti di farina, uova, zucchero, miele e lievito naturale come i Krustulit, i Kulecet, gli Skallitel, i pasta Kunfet, che venivano fritti nell’olio della padrona di casa controllata a dovere dal capo di famiglia. Si friggeva in un’atmosfera festosa fatta di canti tipici della tradizione. Quando la festa finiva, per buon augurio si attaccava alla porta d’ingresso una croce fatta di pasta.

A Fagnano Castello, nel cosentino, era tradizione preparare i cosi fritti, dolci che dovevano essere consumati per il Natale, il Capodanno e l’Epifania, che erano invitati alle famiglie amiche in lutto. La vigilia di Natale, sotto il profilo alimentare era considerata la festa più ricca dell’anno. Si iniziava la mattina con la preparazione delle pietanze da consumare poi la sera per la grande cena. Non si consumava la carne, essa veniva conservata per il giorno successivo, quello del Natale, quando era quasi un obbligo mangiarla. Era usanza cucinare, tredici pietanze (come il numero dei presenti all’ultima cena), o nove (come i mesi d’attesa di una gravidanza) come avveniva a Cassano, nel cosentino, o a Serra San Bruno nel vibonese, o ancora venticinque, come avveniva a Cardinale, nel catanzarese.

Si consumavano piatti diversi a base di ortaggi (broccolo, cavolo, zucca, rapa, cipolla, peperone), pesce azzurro (sarde e alici) o essiccato (pesce stocco e baccalà), e poi ancora: funghi, lupini, castagne, insalata, arance, mele, pasta di pane fritte nell’olio e dolci della tradizione. A Cosenza e nella Sila grande era immancabile sulle tavole la pasta mullicata, preparata con mollica di pane, acciughe e sarde. In tutta la regione era poi diffusa l’usanza da parte dei proprietari terrieri di ricevere dai loro contadini dei capponi oppure grandi cesti di frutta ricambiandoli con nove così: torroni, frittelle di pasta di pane, vino e altro.

Ad Aprigliano, in provincia di Cosenza, esisteva una vera e propria cultura della frittura, infatti venivano preparati diversi tipi di frittelle con vari ingredienti appositamente conservati durante l’anno (pomodori, zucche e altre verdure) spesso tali frittelle sostituivano i costosi pesci, quando la fame minava seriamente la vita degli uomini. A Mormanno, ai piedi del Monte Pollino, sin dalle prime ore della sera la chiesa si tramutava in una sorta di mercato paesano, qui s’esponevano: frutta di stagione, vino, ciambelle e dolciumi, mentre i contadini si scambiavano il saluto col lancio delle arance e di pomi.

In diverse zone della Calabria, la sera della vigilia di Natale, la tavola si lasciava apparecchiata con le pietanza ancora nei piatti, in attesa che sopraggiungesse a mangiare il bombiniallu (Gesù bambino). A Rocca di Neto, nel crotonese, si lasciava la tavola apparecchiata con tredici portate diverse e un bicchiere di vino, la mattina di Natale si riassaggiava il tutto, convinti così, di aver ricevuto la benedizione. Il pranzo di Natale invece era a base essenzialmente di cane, si mangiava la tradizionale pasta al forno preparata con uova, salsiccia, soppressata e polpettine di carne, capretto o agnello accompagnati da patate, legumi e ortaggi vari, carne di maiale arrostita o conservata. Nei paesi grecofoni del reggino, le famiglie povere che non disponevano di carne per il giorno di Natale, piazzavano nei campi o sugli alberi delle trappole per la cattura di per la cattura di uccelli, ghiri e topi di campagna. Sempre in queste zone della Calabria, era tradizione regalare pesce essiccato, pasta, carne di capretto e cavoli. In Calabria per solennizzare il Natale o semplici occasioni conviviali, era tradizione la frittura di patate nell’impasto, o sarde sottosale, più raramente tonno o baccalà. Conosciute in base al territorio come crispelle o grispelle o crustuli o pitte fritte (centro Calabria) o zzippuli (bassa Calabria) o ancora cudduriaddhi (alta Calabria). Queste tipiche frittelle potevano essere anche dolci, cosparse di zucchero o miele.

La tradizione antica voleva che il primo pezzo di pasta di pane doveva essere riposto nell’olio bollente dell’uomo di casa, non prima però di segnarlo con un immaginaria croce cristiana, proprio come a voler rivolgere un ringraziamento profondo a Dio per aver benedetto il giorno dello stare insieme e concesso quella tanto attesa prelibatezza per il palato. Un’altra tradizione voleva che la prima frittella fosse data in pasto al cane di casa o al primo randagio che si trovava a passare. A Carlopoli, nella Sila catanzarese, ed in molti centri del cosentino, si dava alla prima frittella la forma di un piccolo pupazzo che simboleggiava Gesù bambino, dal risultato che si otteneva si poteva trarre presagio circa la sorte dell’intera famiglia nel corso del nuovo anno.

A Verzino invece, piccolo centro del crotonese, si prendeva della pasta e prima della frittura, si realizzava con essa una croce sul camino in segno di buon auspicio, mentre a Fagnano Castello, nel cosentino, ogni volta che si poneva una frittella nell’olio bollente dovevano essere pronunciati, per buon augurio, i nomi di ciascun componente della famiglia. Nel cosentino, queste tipiche frittelle, si mandavano ai vicini in numero pari, ed a quelli in lutto invece in numero dispari, in quanto secondo le regole, quest’ultimi non potevano friggere, poiché tale pratica era considerata motivo di allegria e compagnia, quindi fortemente offensiva nei confronti dei defunti. Inoltre in alcuni centri, era diffusa anche l’usanza da parte delle donne che ottenevano una grazia, di friggere le pasta di pane all’aperto davanti alla chiesa per poi offrirle ai curiosi passanti. Ad Albidona nel cosentino, la tradizione voleva che il capo famiglia fosse presente prima dell’inizio delle operazioni, che l’olio d’oliva utilizzato per la frittura fosse rigorosamente quello della propria raccolta, come buon auspicio per la prosperità della nuova annata.

Santa Lucia

Il 13 dicembre festa di Santa Lucia, protettrice della vista, la tradizione popolare, come accadeva anche nella vicina Sicilia, segnalava il tutto il territorio regionale la preparazione della cuccia, grano bollito dolce o salato. In alcune zone del cosentino veniva preparata la cuccia salata, con dentro gambe ed i piedi di un capretto sacrificato per l’occasione. A Cassano sullo Jonio, il piatto: la santalucia, era a base di granturco. Dopo aver bollito il cereale, si poneva a raffreddarlo per una notte intera per poi condirlo col mosto cotto, al mattino successivo. La massaia, prima di fare quest’ultima operazione guardava i chicchi di mais per potervi intravedere l’impronta del piede della santa, che durate la notte aveva visitato e benedetto la casa.

A Corigliano Calabro, nel cosentino, per la vigilia di tale festa oltre alla cuccia, si segnalava la tradizione di mangiare tredici frutti diversi (compresa la frutta secca), mentre a Fagnano Castello, sempre in provincia di Cosenza, i ragazzini si recavano di casa in casa per chiedere tale pietanza, mentre nella notte della vigilia della festa in onore di questa santa siracusana, era tradizione porre sul balcone o sul davanzale della finestra un piatto pieno di cuccia affinché la stessa ne assaggiasse il contenuto. A Longobucco, nel cosentino, veniva preparata una cuccia dolce, posta poi sulla tavola affinché ognuno se ne potesse servire. In altri centri della provincia di Cosenza come Altomonte e Rossano, si distribuivano ai poveri fichi secchi, legumi e cereali, mentre a Mormanno, castagne cotte, a Pedace invece, venivano consumati insieme alla cuccia. A Verzino, nel crotonese, sempre in onore della suddetta santa si preparavano i crustuli e i cullurelli, rispettivamente tipici dolcetti e frittelle natalizie, con parte dell’impasto di quest’ultime si realizzava, prima della frittura, una croce sul camino in segno di buon auspicio.

La vigilia di Capodanno

Ad Acri, in provincia di Cosenza, un tempo si preparava solo carne con contorno di lenticchie. In tutta la regione venivano segnalati gruppi di ragazzi che accompagnandosi con strumenti musicali per le vie del paese, cantavano la strina, una canzone popolare in segno d’augurio per il nuovo anno, questi giravano per le case dei parenti e degli amici ottenendo in cambio pane, dolci, frutta secca, salsicce ed altro.

La befana

In diverse zone della Calabria era viva la tradizione di una grande abbuffata alla vigilia della festa, mentre i calabro albanesi di Calabria era vietata la carne. A Patronà nella presila catanzarese, ed in altri centri del circondario, veniva segnalata a sira e l’abbutti, la sera delle abbuffate, nella quale si dava doppia razione di cibo anche agli animali domestici. In diverse zone della regione era poi diffusa la tradizione di porre su un tavolo del pane e dell’acqua, che i bambini il giorno dopo dovevano rispettivamente mangiare e bere. A Casabona, nel crotonese, sempre per la vigilia della suddetta festa, la tavola si lasciava apparecchiata, affinché sopraggiungesse a saziarsi il bambinello Gesù.

I dolci

I dolci venivano preparati solo poche volte l’anno, in occasioni di speciali ricorrenze con significato rituale legato a feste religiose e popolari. Nell’impasto si utilizzavano dolcificanti naturali come il miele di campagna, in quanto l’uso dello zucchero era molto limitato. Su tutto il territorio regionale venivano preparati diversi tipi di dolci caratteristici, a cominciare dai mustazzuali o nzuddi, costituiti da un impasto di miele e farina, tipici in particolare del vibonese, per continuare con i turruni, a base di miele, frutta secca e zucchero, tipici del reggino. I buccunotti nel catanzarese simili alle pie o pittapie nel vibonese, paste frolle ripiene di marmellata di uva nera. I petrali o petrali nel reggino, simili alle nepitelle nel catanzarese ed ai chinuliddhri nel cosentino, preparati con farina e uova, ripieni di uva passa o fichi secchi, noci o mandorle, o mosto cotto, oppure di sanguinaccio o di marmellata. Le susamelle o pitte di San Marino, preparate in particolare nel vibonese e nel reggino, costituite da un impasto elastico insaporito da miele, cannella, chiodi di garofano e scorza di limone. I taralli, biscotti a forma di piccole ciambelle a pasta dura o morbida, a volte aromatizzati con semi di anice.

Bibliografia: “Alimentazione e cibo nella Calabria popolare” di Luigi Elia,2014, Bibliotheka Edizioni

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Irene Milito

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